— 62 — fronte a Sjerebrjakòv e a Lopàchin, e preferisce l’assurda pazzia di Kovrin, alla borghese saggezza del suocero suo, uomo mediocre e sodisfatto, il quale vorrebbe guarire quella pazzia senza comprenderne il valore ideale, che strappa a Kovrin queste parole : « Com’erano felici Budda e Maometto, che non avevano né dottori, né buoni parenti, che cercassero di curarli delle loro estasi e ispirazioni!... » Certo, se Kovrin, nella febbre della sua pazzia sembra animato da un ansito quasi eroico verso un’ideale liberazione, per quanto assurda possa apparire, bisogna pur riconoscere che i falliti cechoviani non sono in genere dominati da quest’ansia febbrile; il loro eroismo è più umile, più nascosto: esso consiste, più che nella lotta viva per la conquista di un ideale, nella oscura sofferenza di non poterlo raggiungere: sofferenza che è la loro ultima, ma viva forza spirituale: l’unica forza che non pieghi vinta. 21 — GLI « UOMINI SUPERFLUI » Per questa ragione possiamo in parte convenire con quanto dice l’Ivànov-Razùmnik, che cioè i falliti cechoviani non possono considerarsi come appartenenti alla schiera degli uomini superflui immortalati nella letteratura russa da Pùskin a Ljèrmontov a Turghènjev. Tuttavia, se i falliti cechoviani sono ben diversi dai Rù-din o dai Lavrètskij, se in essi, al punto in cui si trovano, è scomparsa quella violenta lotta di un romantico ed esuberante individualismo contro la forza tirannica della vita mediocre, della vita di ogni giorno, non si può