LA SCALA D'ORO. Dopo il Quattrocento l’oro da profondere in Palazzo mancò sempre più e, scomparso quello che illuminava la Porta della Carta, già detta aurea, e tutti i marmi del cortile, il poco, messo qui tra gli stucchi, bastò a meritare alla scala il titolo pomposo. Più dei dogi Priuli (1556-1567), che vi celebrano lo stemma e il tempo loro, l’avrebbe fatta ricca il magnifico doge Andrea Qritti (1523-1538) - quello posto sul poggiolo della Piazzetta davanti al leone - che, cominciatala, lasciò il suo stemma crocesignato su l’arco d’ingresso, fiancheggiato ora dalle faticose statue: Ercole e Anteo, di Tiziano Aspetti (1565-1607). Anche nelle sculture, pure imitando l’antico, la decorazione, a mezzo il Cinquecento, inclina al barocco, come nelle bellissime porte di legno tanto impreziosite dal tempo. A differenza del secondo braccio più greve, dove poca attenzione meritano le due statue delie Virtù del Segala padovano, Io scomparto di queste prime vòlte è così bello, semplice e unito nel correre delle doppie cornici sfuggenti, che si è fatto per esso il nome grande di Jacopo Sansovino. E non del tutto a torto, perchè il suo scolaro Alessandro Vittoria trentino, che ne è l’autore, nel 1546, giovanissimo, aveva ripulite le cere della ricurva porta di bronzo del Sansovino a San Marco, e qui la imita nella ripartizione dei campi, ripetendo fra le cornici persino le famose teste di gran carattere, ritenute ritratti di Tiziano e dell’Aretino. Compagno al Vittoria fu, per le pitture, Battista Franco veneziano che, reduce allora da Roma, ancor più infervorò Io scultore all’amore degli antichi e di Michelangelo, ma sempre attraverso quella visione pittorica, onde le sue figure paiono ariose come bianchi cammei sull’oro. Sostavano i vecchi senatori ad ammirarli, li confrontavano con l’immagine incisa nella gemma dell’anello e così meno ripida sentivano la scala. Non avevano ascensori, ma l’arte aiutava allora a salire.