"IL VECCHIO E LA GIOVANE,,, DEL VERONE- SE, NEL SOFFITTO DEL CONSIGLIO DEI DIECI. Diceva il Palma giovane, ammirando questa fra le più squisite pitture di Paolo, che « talvolta l’artista, mosso da un impulso di spirito, arriva all’auge più sublime della perfezione, ove di rado perviene ». Infatti fu un volo. Sul soffitto d’oro e sul fregio del putti, gli stemmi dogali del Donato e del Trevisan (1545-1554) attestano che l’opera era finita quando Paolo non aveva ventisei anni. Un mediocre pittore, monsignor Battista Ponchino da Castelfranco - al quale Daniele Barbaro, conosciutolo a Roma studioso di Michelangelo, aveva fatto affidare la sua classica invenzione del soffitto, ove dipinse duri e goffi, Nettuno e Mercurio - ebbe il gran merito di scoprire due giovani pittori, il Veronese e Battista Zelotti, che andavano in compagnia trescando mitologie nelle ville palladiane, e di attrarli qui. A Venezia l’opera di Paolo non comincia pei frati a San Sebastiano, ma a Palazzo pel Doge. Forse il Ponchino mostrò a lui e allo Zelotti, che se ne giova qui nella vicina tela con la imponente e soave Venere fra Nettuno e Marte, disegni da Michelangelo e da altri di Roma. Anche Paolo ricorda la statua del « Mosè » del Buonarroti e forse la «Venere supplice davanti a Giove» di Raffaello alla Farnesina, ma tutto, per lui, diventa pittura: la sua pittura. Uno spirito ardente e misterioso, vivente in colori purissimi e smaglianti, Io avvicina come immediato figlio a Giorgione. Nulla importa il soggetto: abbiasi qui la Gioventù e la Vecchiaia, o popoli barbari e strani, come fu detto, o Proserpina e Plutone; quel che vale è il contrasto pittorico: quel cielo splendente di luce diffusa, tenuto altissimo col piegare le figure in curve di energia e di flessuosa morbidità, e le carni del vecchio fulgenti sul bianco e il rosso delle vesti, e quelle feminee pudiche, così fresche sul verde oliva e sul bianco, e il capo biondo della giovane piegato lieve come quello della tortora. Il genio balza subito al sommo.