I.A SALA DEL COLLEGIO. Anche se la moda romana cinquecentesca imponeva vòlte con affreschi e stucchi, a Venezia sempre, sopra il Doge, doveva splendere il soffitto d’oro, bizantina magnificenza che valeva la disdegnata ombra regale del baldacchino. Di tutti il più ricco d’oro è qui, dove era il « principale ridotto del Doge e della Signoria ». I.e allegorie di Paolo vi celebrano la santità di Venezia, e intorno i ritratti dei Dogi ricordano, nei quadri votivi con la Vergine e i Santi, vittorie e grazie piovute dal cielo. Sulla nota viva delicatissima della seta cremisi del trono, il Doge appariva nell’oro del manto, come nel «Miracolo dell’anello » di Paris Bordone all’Accademia, o nel « Ricevimento dei Persiani » di Carletto Caliari, qui fuori nella sala delle quattro porte, ed era fiancheggiato dai sei Consiglieri in toghe scarlatte a maniche aperte e dai tre Capi della Quarantia criminale in toghe purpuree. Costituivano la Signorìa. A destra sedevano, di fianco, i sei Savi Grandi in toghe viola, a sinistra i cinque Savi di terraferma e della guerra, in toga azzurra. Qua e là fiammeggiavano stole di velluto rosso di Procuratori e stole d’oro di Cavalieri. Giù dal tribunale, presso i segretari, stavano i cinque Savi agli ordini: gioventù patrizia ammessa più ad ascoltare che a parlare. L’ambasciatore salutava tre volte: sulla porta, in mezzo la sala e presso il trono. Se era di testa coronata, al primo saluto tutti, meno il Doge, si alzavano scoprendosi; se no, al secondo o mai. Saliva l’ambasciatore, sedeva alla destra del Doge, pronunziava l’orazione. Il Serenissimo rispondeva dignitosamente senza nulla compromettere, spesso ripeteva quegli stessi alti concetti che Paolo celebra nel soffitto. Finite le cerimonie, restavano i Savi grandi a rimeditare le lettere prima lette e le orazioni. Veri ministri responsabili, interpreti della volontà del Senato, toccava a loro decidere e rispondere.