LA SALA DEL GRAN CONSIGLIO. Sotto il «Paradiso» del Guariento, e poi sotto quello del Tintoretto, passarono fugaci nella sala immensa i piccoli uomini; eppure più ancora per gli uomini che non per la sala viene dai secoli l’ammirazione. Chi aveva assistito, in tanta singolarità d’apparato e di costumanze e in così nobile concordia, ad una seduta del Gran Consiglio, fosse pure un principe o un grande, se ne teneva onorato e proclamava non potersi vedere nel mondo espressione più perfetta del vivere civile, nè più bella. Sperando che il Signore ne accrescesse, ad onta delle pestilenze, il numero, la sala era stata disegnata nel 1340 capace di più di millecinquecento gentiluomini. Talvolta ne accorsero sino milleottocento, chiamati, sempre nella domenica, dal consueto lungo suonar della Trottiera del campanile. Oggi nella desolata vastità resta appena il trono della Signoria. Non le alte panche, donde il Cancelliere grande cogli scrivani dirigeva il procedere dell’assemblea, non i pergoli per gli oratori, non le nove enormi panche doppie, che formavano con quelle alle pareti, lungo tutta la sala, dieci corridoi. Senza distinzione i gentiluomini dovevano sedervi con gravità e modestia, l’uno di faccia all’altro, in attesa di venir chiamati per banchi a cavare dalle tre urne altissime, davanti al Doge, una pallottola (v. pag. xiii). Se era dorata, ma poche ve ne erano, dava diritto a scegliere i magistrati e i loro competitori. A questi ognuno poi dava o negava il voto nei doppi bossoli bianchi e verdi, de sì o de no, che si portavano attorno. Sul più alto gradino, per essere veduti e per sorvegliare tutti, sedevano giù in fondo, rimpetto al Doge, uno degli Avogadori e uno dei tre Capi dei Dieci e, sui fianchi e presso le porte, gli altri e gli Auditori e i due Censori, tutti in vesti dogali di drappo o di scarlatto, a rendere in ogni punto la sala ornata, tutta grandezza e magnificenza.