L’“APOTEOSI DEL DOGE NICCOLÒ DA PONTE,,, DEL TINTORETTO, NEL SOEE1TTO DELLA SALA DEL GRAN CONSIGLIO. Sull’immenso soffitto lo stemma del doge Niccolò Da Ponte (1578-1585) è ripetuto in rilievo e in pittura, anzi lo stesso Doge è raffigurato e celebrato neH’immenso quadro centrale, perchè nei sette anni del suo regno, cominciato pochi mesi dopo l’incendio, non solo erano stati compiuti i restauri del Palazzo pericolante, ma tutti gl ornamenti d’intaglio e di pittura. Invero, oltre al suo, non si trova qui altro stemma dogale. Fanno scorta al Doge sotto il baldacchino i Consiglieri e i Dieci, gli effettivi padroni che noi onoriamo perchè, resistendo pelano ai consigli del Palladio, conservarono, ossequienti alla tradizione gloriosa, il Palazzo nella sua forma antica. Non per nulla avevano eletto un Doge venerando, e lo onoravano qui dove la gioventù patrizia prevaleva. Niccolò Da Ponte, gran dottore, oratore presso tanti principi e al Concilio di Trento, eloquentissimo, tanto che aveva fatto piangere di commozione e di turbamento papa Gregorio XIII, era sui no-vantotto anni, quando fu ritratto così, ancora in atto di parlare. A lui e a Venezia e al leone, le città d’oltremare e di terraferma fanno omaggio di sudditanza presentando le chiavi, e i loro dottori salgono coi diplomi e i privilegi mentre in basso riposano guerrieri e bandiere. Ogni terra celebrava in pace le sue tradizioni e le sue glorie. La grandiosa luminosa magnifica visione sale dalla verità al mondo della fantasia sù per la immensa scalea, alta come la Basilica d’oro. Ma dove essa attinge il cielo ogni vigore le vien meno nelle risibili figure di Venezia e del leone. Perchè Jacopo Tintoretto tradisce così l’opera sua, immaginata con tanto fervore? Egli che nella solitaria scuola di San Rocco come il passero canta a gola piena, in Palazzo s’infastidisce della vicinanza formidabile di Paolo, e della troppa gente, e seccato abbandona estro e pennelli ai miserandi allievi.