— 137 — ai difetti che si appalesavano allora assai gravi per un retto funzionamento della giustizia (1). Se il disquilibrio, che oggi generalmente sussiste nel concetto di colonia, quale ente subordinato alla metropoli, era certamente ignoto ai veneziani che sempre vedevano nelle colonie la sorgente preziosa della loro grandezza, potevano mai le colonie venete mantenersi fondate su basi collaborative, qualora la collaborazione non fosse stata garantita e difesa da corruzioni, sopraffazioni ed abusi, che appunto il governo centrale di Venezia con azione recisa ed inflessi-bile voleva sopprimere ? Ogni politica di sopraffazione o di spinta difficilmente si sarebbe effettuata con fortuna con i mezzi di una metropoli, vasti sì, per un’economia cittadina — come si è ripetutamente osservato —, ma sempre limitati per una politica di urto, seppur pacifico, tra popoli che si governavano con reggimenti godenti larga autonomia. Numerosi, del resto, sono i controlli della metropoli sul governo delle colonie. Il Provveditore Straordinario di Morea Taddeo Gradenigo nel 1692 riaffermava che nel Regno di Morea, da poco sotto il dominio della Repubblica, bisognava abolire l’uso pernicioso di procurare la corruzione della giustizia « col pregiuditiale allettamento dell’utile donato, et indiretto ». Conferente anzi e salutare — egli diceva — sarebbe riuscito « frenar con indipendente distributione della medesima la forza dei prepotenti, solevar gli oppressi, et adoprando all’occasione la placidezza » e la severità ridurre tutti i popoli « nel perfetto timore e veneratione della Maestà pubblica... » (2). Ma quale vasta opera, non ancora illuminata dalla storia, doveva essere, nei secoli precedenti, nelle città, quest’azione di giustizia, di equilibrio sociale, ben prima che nel Regno di Morea, lasciato dagli Ottomani, dove Venezia entrava portando una folata di giustizia ! Le Relazioni venete sono talvolta l’accessorio ed il commento più notevole per illuminare i movimenti legislativi, perchè costitui- (1) Francesco Grimani nel 1701 riferisce che i sudditi della Morea « meditano reciprocamente inganni e temono sempre d’essere ingannati. Sono frequenti nei riccorsi, ma per il più appoggiati a falsità, et a mentite apparenze, con arte tale, ch’a primo aspetto sembrano promossi dalla più honesta e viva ragione. Soggiaciono sopra ogni credere al predominio dell’interesse, e questo è il primo insegnamento ch’apprende il Figlio del Padre...». Nel 1632 Antonio Pisani diceva, parlando di Corfù e dei suoi abitanti: «Pare che questi sudditi abbino principal impresa il somministrar cavilli e puntigli a Rettori per tenerli in discordia, e cavarvi il profitto della diffesa, e prottetione da alcuno di essi ne i loro bisogni con pregiudicio delle cose pubbliche, et della quiete... » (Arch. Stato Venezia, Rei., b. 75). Marco Loredan nel 1711, in una sua Relazione dalla Morea, diceva: « Gran occupatione ha la Carica delle Udienze. È vitio della Natione per ogni benché piccola differenza ostinarsi nei Litigii ». (2) Egli suggeriva poi che i popoli dovessero essere « governati da carica auttore-vole appropriata a soggetto di stima ».