187 — ma, nei limiti del possibile, l’economia agricola deve sempre essere indirizzata al nucleo metropolitano, al centro di scambio, subendo la domanda proveniente da questo; la città deve essere la suprema moderatrice, l’anello più propizio che congiunge le terre alla metropoli, il perno indispensabile di riattacco. La città di « scambio » deve esistere : accentrata, sciolta, etnicamente metropolitana, perchè allo elemento metropolitano è affidato il compito di potenziare il movimento di scambio diretto alla metropoli (1). Considereremo ora, nelle due opposte posizioni, quale sia l’interesse dello Stato. Io direi che l’interesse dello Stato è in funzione dell’economia e delle possibilità presenti e future dello sfruttamento. Se lo Stato si propone una vasta opera di redenzione terriera, se lo Stato colonizzatore ha fede in una rinascita dell’agricoltura coloniale, il suo interesse, nei riguardi della società indigena, non può essere di mero intenso controllo. Si deve sì, infatti, moderare o dominare una « societas » indigena vivente sul piano di una concorrenza, ma vi è anche l’interesse, per lo Stato, di indirizzare la società indigena perchè cooperi con il suo lavoro a rendere meno intenso il regime di concorrenza. Lo Stato, quando opera in questo senso, è guida, cc regge » delle popolazioni, innalzandole e compenetrando il proprio interesse, che guarda al futuro, con l’interesse delle popolazioni indigene. La base su cui si fonda la saldezza del dominio è il moderare la concorrenza; l’inesistenza di una concorrenza è la colonna massima dell’unità coloniale, che ancor più saldamente si pianta quando alla concorrenza si sostituisce Vinteresse alla collaborazione. A dir vero, dunque, e sempre in relazione al « quod plerumque fit », il funzionamento della « societas » indigena è un interesse anche immediato dello Stato colonizzatore che scorge, nel dissodamento delle terre, la redenzione agricola ed il temperamento progressivo del regime economico di concorrenza attuato pure col mezzo dell’elemento indigeno. Ecco allora che la « societas » indigena è utile, può essere utile; la sua scioltezza sociale, il suo funzionamento che garantisce un lavoro diretto ad uno scopo ben preciso, costituiscono due fini dello Stato colonizzatore, il cui intervento, dapprima di mero controllo, si trasforma in un intervento positivo volto a dirigere e perfezionare il regime giuridico proprio della societas indigena. (1) Per ciò all’economia agricola, di per sè disgregatrice, quando poggiata sul lati-fndo a radissima popolazione, si debbono contrapporre centri potenti di raccolta e di aiuto per la colonizzazione della terra. Si può dire che la città coloniale abbia uno scopo di preparazione di primo ordine potenziando e svolgendo più celere lo sfruttamento della terra.