— 197 — ravano nel ’600 per Venezia lo scambio; due capilinea divenivano identici o quasi; allora si verificava il medesimo fenomeno contemporaneo della diminuzione dello scambio tra metropoli coloniali moderne e colonie sature. Ma che cosa faceva Venezia quando essa osservava una diminuzione persistente dello scambio? Non poteva il controllo, ancor più, premere per saldare, per rafforzare un dominio che cominciava a staccarsi ? L’antico veneziano che, nell’eroico sconosciuto ’600, si corazzava di ferro, e combatteva in Levante con un’audacia dimenticata da molti storici, non premeva sulle popolazioni suddite in un’epoca in cui Francesco Morosini poteva dire che il nome del doge di Venezia viveva così « glorioso nelle parti d’Oriente, che, portato sulle ali della fama, risuonava formidabile in tutte le più lontane nazioni dell’Universo » (1). Il veneziano, in quel tempo, voleva moderato il controllo sulle popolazioni suddite, anche quando esso controllo era marginale, periferico. Sembra un’attesa, un’aspettazione di nuovi eventi. Pure la neutralità di Venezia, che è stata esageratamente ed ingiustamente colpita dagli storici moderni, è un aspetto prodotto dal dilemma. Non era inoltre Venezia, in pieno ’600, una città scesa dal piano di un magnifico isolamento, non era uno Stato abituato a fare da sè, a dirigere da sè, a controllare da sè? Anche la neutralità poteva rappresentare uno strascico tradizionale rispecchiante l’indomita indi-pendenza di un tempo. Se il tipo di colonizzazione veneziana era indirizzato allo scambio, esso esigeva un grande equilibrio sociale tra i sudditi. Nell’amministrazione celere, ben congegnata si dovevano levare « tutte le tenebre, et ogni caligine » (2), perchè ogni sopraffazione nel caposaldo coloniale si percuoteva sulla metropoli e sul suo benessere. Come più tardi l’Inghilterra, anche Venezia misurava allora davvero le sue forze. Il controllo, comunque, era meno richiesto, vastissimi raggi di attività di collaborazione potevano stringere ancora i lontani sudditi al cuore della metropoli. L’intervento dello Stato non poteva essere d’oppressione. L’intervento dello Stato stava ancora nel sollevare i sudditi oppressi dalla sventura. Daniele Dolfìn scriveva nel 1711: «Felici i sudditi che negli eventi calamitosi trovano pronto il conforto dalla destra pietosa del (1) Archivio Stato Venezia, Relazioni, b. 75 (1670). (2) Arch. Stato Venezia, Relazioni, b. 74, relazione Basadonna 1566.