MARIO LONGHENA Ma la sua fibra, logora dalla diuturna fatica, non ebbe un vantaggio nè un ristoro dalle aure miti e dal silenzio che intorno regnava: un colpo d’apoplessia, come folgore, abbattè la saldezza di quel corpo, che, come un lottatore ferito e che non vuole lasciare il campo, riprese ancora vigore tanto da sostenere i disagi di un viaggio di ritorno alla sua città. Purtroppo neppure nella sua Bologna la salute perduta riappare intera nel Marsili: era la fine ed egli presentiva il disfacimento del suo corpo. Ciò che prima era stata la cura precipua della sua esistenza e della sua attività, il suo Istituto, non valse a restituirgli un po’ di quella forza che l’aveva sostenuto per tanti anni nelle difficoltà più aspre: pensò ad esso, ma come chi stava per abbandonarlo per sempre, pensò ai suoi professori e li volle vicini ed affidò ad essi le sue estreme volontà. Alte son le parole che si riportano come dette da lui nel salutare coloro che nell’istituto, con la serenità dei loro studi, erano i continuatori e gli accrescitori della sua buona idea: par quasi che ci stia di fronte qualcuno dei grandi saggi dell’antichità, per i quali il trapasso non dava lo spavento che dà alle anime piccole, ma era come un fatto a lungo pensato e scevro di qualsiasi viltà. La fede salda in lui dava soavità e calma alle parole, la retta coscienza del dovere fino all’ultimo compiuto aggiungeva nobiltà ad essa. Sto per intraprendere un’altra vita — questo è il senso delle sue parole, — più bella di questa, perciò mi separo da tutto ciò che riguarda questo mondo, ed anche da quell’istituto che ò più amato di ogni altra cosa. È desso il segno del mio amore verso la mia città, amatela anche voi, coltivando l’istituto ed accrescendolo. A voi affido i miei - 156 -