- 388 - cui ottimi quelli della non esistenza di à e i e dell’ assenza dei verbi in ri. Ignoro se tale osservazione sia stata mai fatta da altri; certo è che i Romeni di Macedonia e del Pindo non vi hanno posto mente, come benanco l’esimio Papahagi. Aggiungerò che, riflettendo alle varie « elisioni e abbreviazioni » già notate, sembrami di poter affermare con sicurezza che nemmeno quei nostri connazionali debbono avere « ab antiquo » usato del circonflesso \’ à e la i, acquisito forse più tardi per il contatto con gli Slavi, mentre i Romeni di Albania, meglio sottratti all’ influenza di questi e dei Turchi, poterono conservar puro il loro idioma. Quale, or dunque, la norma che si dovrebbe noi adottare per l’insegnamento del romeno propriamente detto nelle nostre scuole di Albania? Secondo me il sistema sarebbe semplice assai. La lingua Romena di Romania è bella, ma lo sarà ancor più quando, al posto di parecchi vocaboli d’origine straniera, ve ne saranno dei latini, quali trovansi nell’ idioma dei connazionali nostri viventi oltre i confini della madre Patria, in Transilvania e Banat, Bucovina, Bessarabia, Serbia, Bulgaria e Turchia...; allorquando, ad esempio, non ci sembreranno più curiosi dei termini come questi: Lotru (Banat), scatulà (Transilvania), molestare (Bucovina), cane, manà (rom-alb) invece di .yiret e hot, di cutie, di necajire, di càne e pàne (càine e pàine) ; allorquando, invece degli orribili cobori, pogori, scobori, dóbori, pàri, uri, omori e... compagnia useremo dei sinonimi meno antipatici all’ orecchio, togliendoli in prestito, ripeto, ai Romeni espatriati, e individualizzando cosi la nostra lingua in modo da renderla seconda se non prima fra le lingue latine e alla pari con l’italiana! Chi non sa quanto siano difficili a pronunziarsi da uno straniero la à e la i? A me, per esempio, fu impossibile di tro-