dei grandi ed alti Illiri non avrebbe dovuto restare che la memoria nelle tradizioni. In quel giorno, ormai lontano, il sig. Bosio (il dragomanno del Vice-Consolato d’Italia a Valr lona) ed io passavamo pel Musakijà al trotto sui nostri agili cavalli. Sostammo ad un villaggio con le case costruite in calce e creta: poco lontano, a vista d'occhio, sorgeva un villaggio isolato di poche capanne coperte di paglia. « Chi abita quel villaggio*? » domandai. — « Ciobani (pastori) > ; mi fu risposto. — «Albanesi, come voi > ? — «No, ciobani. » — « Ma chi sono dunque questi « ciobani » ? — « Greci >, soggiunse Bosio. — Vediamo, dissi, e così seppi che quei poveri abbandonati erano Valacchi, e che, greci di fede, parlavano un dialetto latino affine al romeno come all’ italiano. Nessuno quasi li considerava come uomini.... Di quei Valacchi ne trovai dopo in cento altri villaggi, in montagna e in pianura, come dappertutto nell' Albania. Pouqueville e Weigand li avevano appena intraveduti. Pensai che sarebbe stato compimento di un dovere grande per la scienza e per l'idea latina far studiare quel problema, e l’occasione mi si presentò molto favorevole. L’amico Burileanu può dire come noi ci conoscemmo e come sono andate le cose nel 1904 e nel 1905; ma io sono fiero di soggiungere qui che, egli, nei due viaggi compiuti nell’Albania centrale e nella Macedonia, ha superato ogni più lusinghiera aspettativa ed ha meritato della patria in altissima misura. Io gli attesto qui l’onore che gli è dovuto come a studioso, come ad apostolo: questo è modesto premio, lo so; ma l’opera sua trionferà sicuramente e nobilmente.