pelle logora e chiamato Pontius invece di A Ponte, rispose arguta-mente improvvisando il distico: « Pontius ipse vocor, sed non sicut ille Pilatus Quamvis sit vestis tota pilata mihi ». Attendendo alla cosa pubblica non solo non trascurò i suoi affari, ma riuscì, da povero che era, a costituirsi una ingente fortuna, che i contemporanei valutavano a centocinquantamila ducati e che in Decima apparisce con una rendita di oltre duemilasei-centoventi ducati. Le male lingue dicevano che si fosse così arricchito col commercio e con altri mezzi non sempre leciti e con la grande taccagneria ed avarizia, che dimostrò sempre nelle legazioni e nei reggimenti. Che fosse avaro lo dimostrò anche nel testamento con i pochi e magri legati destinati agli istituti di beneficenza e per scopi pii e religiosi, che non credette aumentare neppure quando il notaio con la solita sacramentale formula gliene fece ricordo. Quanto fosse ricco lo provò pure il nipote Nicolò, che, lui vivente, potè prendersi il lusso di diventare procuratore di S. Marco de ultra pagando ventiduemilacinquecento ducati ! Inoltre egli costruì o condusse a termine il grandioso palazzo di famiglia a S. Maurizio, che venne affrescato esternamente da Giulio Cesare Lombardo. Morto Sebastiano Venier, si riunì subito il conclave, che, dopo un lungo e laborioso dibattito, lo elesse il 18 marzo 1578 doge dopo che era riuscito con destri maneggi a mettere fuori di combattimento i numerosi competitori, cavalieri e procuratori Vincenzo Morosini, Giacomo Soranzo, Giovanni Da Lezze e Paolo Tiepolo, procuratori Marcantonio Barbaro, Tommaso Contarmi e Marco Grimani, ed i patrizi Piero Foscari, Nicolò Venier, Francesco Bernardo, Giovanni Dona, Leonardo Pesaro, Zan Francesco Priuli, Giacomo Emo, Antonio Bragadin, Pasquale Cicogna, Giovanni Mocenigo ed Alessandro Gritti. Ebbe molta contrarietà, per essere poco considerata la sua famiglia, e la sua elezione fu paragonata a quella tanto discussa del doge Andrea Vendramin. Il suo 196 -