118 Qual vaso vii che in mille pezzi infrange Artefice sdegnato. Or dove io sono ? Fugge da passi miei la terra; i soli, Che ardevan pria nel firmamento, al nulla Ridotti son, e qual vapor svanirò, Ch’ in notte estiva comparisce, e muore Allo stesso fulgor di breve raggio. Tutta questa, che fu terrestre massa, Un vortice di fumo or mi rassembra, Che nella immensità sparisce, e tutto Si dilegua agli sguardi. Ormai più stanche Lente scorrono 1’ ore, e non ha moto Del tempio il cocchio, che alla meta è giunto De’ spazi suoi. La micidial sua falce Piantò de’ prischi suoi trionfi in segno. Ohimè! che veggo ancor! La meta ¡stessa Precipita all’ abisso, e tutto è nulla. Nunzio divin. che a miei pensici* presiedi Tu dell’ eternitade all’ ampie soglie Terribili mi guidi. Io non pensai, Che cosa orribil più d’ oscura tomba Esser potesse. 0 Dio, quanto più fiero S’ appressa agli occhi miei nuovo spavento. 0 gli alzi io al ciel, o in giù rivolga i lumi, 0 intorno intorno io miri, altro non veggo Che voragine aperta, che infinito Spazio, che senza fin profondo abisso. Chi ardito potrà mai, di terror scevro, Impegnarvi lo sguardo? Ha pur la scienza Modi ad esprimer d’ogni tempo il corso,