— 109 — Riul Tirgulni veniva col suo mormorio da lontano. L’erba era bagnata. Forse per il freddo mi addormentai e non mi svegliò che lo scricchiolio assordante d’un carro carico di tavole che scendeva dalla segheria dal Rucar. Il sole era alto. Vegliai tutta la notte in piedi, non mangiai, mi dolevano le costole; avevo freddo, ero costipato, mi sentivo venir meno. La febbre mi teneva. Entrai nella mia camera. Mi buttai sul letto. Dove caddi, mi addormentai. Quanto dormii non so; ma sognai che un amico come se ne trovano pochi al mondo, mi accarezzasse la fronte e le mani gelate. Mi svegliai. Aprii le palpebre e rimasi impietrito, cogli occhi imbambolati, così come mi trovavo sul letto, buttato di traverso, col collo torto e colle vene del collo tirate. Volli chiamare. Apersi la bocca, non sentii nulla. In faccia a me stava immobile lo sconosciuto. Mi sembrava che lo sguardo suo mi giudicasse, mi condannasse, mi giustiziasse. — Non siate bambino, non avete di che temere, mi disse dolcemente calmandomi. Avete dormito sulla strada, avete preso freddo, vi passerà, non è nulla, di tutto si può guarire ad eccezione del disgusto e del dubbio. E vedendo che cercavo di parlare, senza riuscirvi, mi prese la mano tra le sue, mi accarezzò, poi ricominciò a parlarmi sorridendo: — Vi darò una bottiglia di vino; la berrete tutta, mangerete bene e passerà. Sono dottore, cioè ho studiato , la medicina malgrado non cerchi più di guarire nessuno.