— 198 — sella e andava al suo ovile dall’altra parte del lago, in certe vallate. Quell'uomo era d’una quarantina d’anni, aveva le sopracciglia aggrottate, i baffi folti, neri, e nel suo par lare si sentiva qualche cosa di oppresso e di profondo. Noi lo chiamavamo « zio Michele » e gli volevamo molto bene. Raccontava con grande efficacia storie antiche e i suoi racconti ci lasciavano sempre come un velo di tristezza sull’anima... Egli era un pezzo d’uomo dal collo venoso; col pugno avrebbe ucciso un toro; ma quando raccontava, aveva qualche cosa di dolce nello sguardo e la sua voce pareva confondersi col canto delle tristi vicende d’altri tempi. Una notte il vento non soffiava ed il bosco stava immobile spiccando sull’orizzonte pallido. La luna non vi era; le stelle riempivano l’aria; la Moldova scorreva calma in quello svolto a poca distanza da noi e luci d’oro giuocavano sul tremolìo delle onde. Zio Michele venne più presto del solito, quella sera, sciolse i cavalli e si coricò sul fianco, pensoso, coll’anima come oppressa da qualche pena. Noi eravamo cinque ragazzi e ci eravamo distesi ventre a terra, avvolti in mantelli e pelliccie di pecora. Ogni tanto il fuoco ravvivandosi scopriva uno, poi la lotta delle fiamme cambiava e lo lasciava all’oscuro scoprendone un’altro colla testa rialzata, cogli occhi lucenti. «Zio Michele, cos’avete questa sera? Non mi sembrate del solito umore». «Non ho nulla, ragazzo mio... » rispose zio Michele. — Penso anch’io... Viene per l’uomo un’ora nella vita quando pensa al passato e gli pare che si apra una tomba ».