Gorizia vista dalle alture di Oslavia - Da un acquerello di G. Tunis nella pittoresca pianura friulana. A destra il massiccio e turrito castello di Gorizia, sorridente dall alto del colle aprico, aveva 1’ aria benevola d’ un padre che veglia ognora sui propri figli vicini e lontani. Le chiese di Gorizia slanciavano i loro campanili al cielo, rompendo con le cuspidi civettuole, la linea uniforme della cortina di case ai piedi del Castello e della Castagnavizza. Un venditore girovago, delle biscottate ciambelle (colàs) di Cormòns, veniva rompere coi suoi lazzi la muta contemplazione di quel paesaggio sublime. Al di fuori della muraglia del sagrato, vicino alla scalinata, una schiera di pezzenti, capitati da ogni dove, stendeva la mano chiedendo l’elemosina ai passanti mettendo in mostra tutta la sua disgrazia fisica e morale. Poco distante dalla chiesetta si trovava la tenuta già dei duchi di Blacas, amministrata dal patriotta Carlo Fonzari, che era stato al servizio dei Bonaparte. Forse sulle rovine di qualche castello antico sorgeva, da parecchi decenni, una modesta fattoria di campagna. Per quella occasione un colono teneva nell’ abbandonata scuderia ducale una mescita di vino di quelle plaghe solatie. Gli amanti del buon gotto preferivano però di castigare l’ugola fino a Salcano, dove nell’osteria Battistig o in quella del Marussig, trovavano di quello che faceva per il caso loro. I goriziani si allogavano nelle stanze al primo piano. Ai tavoli del pianoterra battevano di briscola gli avventori di Salcano (salcanès), per lo più falegnami, che guadagnavano molto bene vendendo i loro manufatti ad Alessandria d’Egitto. Dalle sporte venivano levati i bocconcini ghiotti, preparati con meticolosa cura dalla madre di famiglia. Ne uscivano fuori teste affumicate di maiale, lombi arrosti di vitello e altre consimili pietanze. All’ostessa venivano chiesti, per contorno, il radicchio rosso, servito nelle insalatiere inghirlandate, e le ova sode. Dopo aver mangiato a sazietà e tracannati parecchi litri di frizzante Terrano del Carso, veniva data la stura alle villotte : Daigi un tich a di che puarta, Che si viarzi chel saitei, Uei busa la me Ninuta Sun chel voli cusì biel ! (Dagli uno spintone a quella porta, perchè si apra quel chiavistello, voglio baciare la mia Ninetta sopra quell’occhio così bello!). Il patriotta Carlo Fonzari 15