Per chi non lo sapesse, ricorderemo che, ancora una settantina di anni fa, non si consumava farina di frumento nelle famiglie del popolo, perchè era troppo costosa. Per fare il pane si usava la farina di orzo, il pane di formentone costituiva un lusso dei giorni festivi. In tempi più recenti il pane di farina d’orzo venne sostituito dal pane di farina integrale (pan di noli). Cessate le note del canto nuziale e, dopo aver bevuto il vino dai boccali di maiolica - da ciò il nome di majolsisa della canzone - il corteo si riordinava per dirigersi alla casa dello sposo. In capo marciavano gli sposi, seguiti dai compari, dai parenti e dagli invitati. Venivano per ultimi i musicanti che seguitavano a sonare vecchie allegre marce lungo tutto il percorso, attraverso le vie e le piazze della città. Durante il tragitto, fragorosi spari di mortaretti salutavano la comitiva giuliva. Giunti dinanzi alla casa dello sposo, un caposcarico (mataràn) che veniva pagato per tenere allegra la compagnia, batteva tre colpi sull’ uscio con un’ ascia, simile a quelle usate anticamente dalle guardie di notte. Ne usciva la madre dello sposo, che rivolgeva alla comitiva questa domanda: «Che cosa cercate qui, buona gente ? » (Se sercezo eh, huna ini ?) - « Donnamadre, vi abbiamo condotto una colombella » (Donamari, us Min menai una colombuta) e, così dicendo, quel mattacchione le presentava una ragazza del corteo. « Questa non è la colomba che attendevo, conducetela via, eh’ io non la voglio ! » (Chista no le la colomba che spietavi, menèla Via, che jo no la uei!), rispondeva la madre. Costui le presentava ancora altre due ragazze, ma riceveva sempre la stessa risposta. Finalmente, per quarta, presentava la sposa e allora la suocera diceva : « Questa sì, che è la mia colomba ! » (Chista si, che l’è la me colomba !) Avvenuta la singolare presentazione, la suocera rientrava in casa per uscirne tosto con due boccali di vino, che venivano vuotati da lei e dalla nuora (brut) con il braccio dell’una incrociato con il braccio dell’altra (cui bras incrozàs). La suocera portava quindi un paio di tortorelle e le presentava alla nuora, con queste parole : « Più buona tu sarai con me, tanto più buona sarò io con te ! » (Plui buna che tu saràs cun me, tant plui buna jo sarai cun te !) In quel momento si avvicinava alle due donne una bambina, che aveva seguito il corteo, per offrire alla suocera, a nome della nuora alla suocera, uno scialle (fasoletòn) di flanella, dopo di che la suocera si scostava dalla porta per lasciare entrare la nuora, ed aveva principio il banchetto nuziale (tratamènt di gnòssis). I commensali alle vecchie nozze goriziane erano più di una sessantina. La mensa veniva approntata nel granaio, dove c’ era dello spazio suffìcente anche per le danze, che ne seguivano. Per cuocere le pietanze veniva assoldata una cuoca, nella metà dell’ Ottocento era tale Lucia Zurman, che vi metteva quasi una settimana per prepararle. In quell’ occasione venivano ammazzati un vitello tra i più grassi, dieci tacchini, una farragine di pollame e, acquistata dal macellaio, parecchia carne di manzo e di maiale. La suocera soleva dire che i contadini stanno bene due sole volte durante la loro vita : quando si sposano e quando battezzano (i contadins stan ben dos soli voltis ta vita : co si spozin e co batijn.) Ognitanto gl’invitati venivano alleggeriti, con qualche pretesto, di un po’ di danaro. Alla portata del tacchino compariva un uomo, che raccoglieva nello sterno di quel volatile i talleri argentei che dovevano servire per il corredo del primogenito. Si presentava poscia la cuoca con un cucchiaione di legno. Costei faceva il giro della tavola dicendo : « Ricordatevi di me, che sono tutta abbruciata, per essere stata per tanto tempo vicino al fuoco ». (Ricuardesit di me, che soi duta hruzada, par vè stat tant timp dòngia dalfuch). E novamente saltavano fuori i talleri rilucenti, di quelli che sul diritto avevano l’effìgge dell’imperatrice Maria Teresa e sul rovescio quella della Beata Vergine Maria. Così, per un motivo o per l’altro, gl’invitati si trovano, alla fine della festa, alleggeriti d’una trentina di Fiorini per ciascheduno. Finito il banchetto il corteo, preceduto dai sonatori, andava a fare un giro per la città, seguito da un codazzo di monelli. Al suo ritorno la festa ripigliava nel granaio, dov’ era la mensa sempre imbandita e dove, giovani e vecchi, si davano alla pazza gioia dei tradizionali balli, tra cui la furlana, la sciava, la monferrina e la stiriana (stajara), sino allo spuntar dell’alba. 223