di un castello fatato. Verso le venti usciva dalla Chiesa dei Cappuccini la quarta, quella che attirava la maggior folla di gente per il grande sfarzo di luci in cui si svolgeva. Lungo tutto il percorso erano accesi fuochi di bengala fissati su dei pali e, nella Piazza Bertolini come pure sul quadrivio tra le vie Dogana, Tre Re, dei Cipressi e dei Cappuccini, si godeva lo spettacolo gratuito di bei fuochi d’artificio, preparati dal bandaio Kren, che terminavano coll’accensione di una grande girandola, dalla quale se ne dipartiva una pioggia d’oro accompagnata da sibilanti serpentelli, che per ultimo si spegneva con uno scoppio fragoroso. 11 continuato sonare a festa delle campane dal tono argentino, la lunga fila di ceri accesi, il profumo dei fiori e dell’incenso, l’illuminazione delle case, tra cui quella della nostra povera Nonna Luisa e del buon Nonno Zanùt, al numero sette di Via Trieste, dove noi venimmo al mondo, lo spettacolo pirotecnico, la luna piena, che s’alzava maestosa verso il Borgo San Rocco, formavano un insieme fantasmagorico, impossibile a potersi dimenticare per tutta la vita... Sabati Santi d’altri tempi in nostra vecchia, bella, cara Gorizia! * Un vecchio detto goriziano, che corre ancora sulla bocca dei nostri nonni, diceva: Voja, o no tìoja, Pasca ul foja ! (Voglia o non voglia, Pasqua vuole foglia!). Per Pasqua i prati ed 1 campi avevano già assunto la veste primaverile. Gorizia, bianca diva dell’ Isonzo, appariva tra il verde dei suoi vaghi giardini, in tutta la sua adorabile smagliante bellezza. Nel Ronco dell’Arcivescovo (Ronch dal vescul) gli usignuoli concertavano la notte, e, in Piazza Grande, verso le ore antelucane e quando il cielo si tingeva d’un rosa vellutato, era una delizia a starne udire i gorgheggi. La mattina per tempissimo i mortaletti di Borgo San Rocco svegliavano la gente per farla accorrere alla processione che colà si snodava. Per le vie della città s’incontravano delle contadine con panieri (sistèlis), ricolmi di tradizionali dolci pasquali quali le pinze, le gubane, le fùlis, il pan sporch, che portavano a benedire nella Metropolitana. Le fùlis, per chi non lo sapesse, erano dei pasticci confezionati con farina di frumento, cannella, scorza di limone, formaggio grattugiato, lardo, zibibbo e pignoli, che poi venivano lessati avvoltolati in un tovagliolo nel brodo del prosciutto pasquale. Il panforte (pan sporch) lo si faceva con la farina di frumento, ova, latte, burro, olio, cannella, noci e zibibbo. Gli si dava la forma di focaccia e lo si portava ad arrostire dal fornaio. Per evitare che venisse confuso con quello di qualche altra massaia si usava con-fìcargli di sopra una foglia di ulivo benedetto. I cittadini portavano invece a benedire nella stessa chiesa il sale, lo zucchero, le ova colorate ed il prosciutto, che si usava consumare in quel giorno. Dai gradini dell’altar maggiore il sacerdote celebrante benediva tutta quella grazia di Dio. Il sagrestano riceveva in dono in quel giorno da ciascuna contadina due o tre ova sode e dai cittadini un pezzo da dieci soldi (flica). Verso le dieci tutta la famiglia raccolta attorno al suo capo mangiava belle fette di prosciutto lessato in casa (fetis tajadis cui fanselùt), fùlis, ova sode e abbondanti porzioni di gubana. Chi non andava ad assistere alla messa grande delle dieci, alla quale si recava, in un’ antica berlina dorata il Principe Arcivescovo accompagnato dai servitori in livrea, non mancava di certo a quella del mezzodì, la cosiddetta messa ultima, alla quale interveniva tutta la nobiltà goriziana. Non diremo del pranzo luculliano del giorno di Pasqua nelle vecchie famiglie della città. Accenneremo soltanto che certe usanze, tuttora conservate, risalgono a tempi remotissimi e che i goriziani godevano antica rinomanza per la buccolica. 60