Codesto ¡strumento di vecchia fattura goriziana, era dato a prestito ai sonatori, verso il pagamento di un piccolo importo, dal suo proprietario, il vecchio bandista. Filippo Pelizon, figlio del liutaio goriziano Antonio Pelizon. La Sala De Fiori era avvolta in una penombra suggestiva, che ricordava quelle predilette dal pittore Gerardo Dou. Dal soffitto con le travature a vista, pendeva un rozzo lampadario formato da una crociera di legno, sulla quale ardevano quattro grosse candele di sego che ammorbavano l’aria col loro puzzo nauseante. Gl’ intervenuti, fatta qualche piccola eccezione, appartenevano allo strato più basso della cittadinanza. Convenivano quivi una volta all’anno, attirati da una forza irresistibile. Le coppie danzanti si movevano in un’ atmosfera caliginosa, impregnata d’inebrianti esalazioni alcooliche, di acre odore di pietanze speziate e di fumo asfissiante del tabacco da pipa. Quali eccellenti ballerini della furlana, della stajara e della sciava venivano considerati un Pelizon, fratello del liutaio, e tale Leon di Cocevia, che conosceva l’arte dell’ jucà a modo dei pastori alpigiani, cioè del modulare con note di gola. Le ombre della calca inquieta, proiettate sulle scialbe pareti del locale, s’ aggrovigliavano in una fantasmagorica ridda infernale. Lassù, tra quella marmaglia avvinazzata, dove i due unici vigili urbani che a quei tempi vantava Gorizia non arrischiavano per prudenza di ficcare il naso, comparivano talvolta 1 dandy goriziani, sotto la protezione di Ceu, per fare un giro colle belle, ma sempre pericolose, ragazze (ciascielànis) di Borgo Castello. Quando un ballerino impegnava quattro balli per proprio conto (cordava quatri bai) i sonatori gli regalavano un quinto, che di solito era una furlana ; lo stesso donativo facevano verso la fine della festa, quasi in omaggio alle vecchie tradizioni ballerine goriziane. Verso le ore antelucane, gli abitudinari del Veglione di Castello finivano col pigliare una potentissima sbornia (baia). Poi calatisi per la Riva del Castello, abbracciati l’un l’altro e cantando delle canzoni che avevano più del ditirambo che delle villotte, andavano sorbire il mocca al Caffè Armonia (già Zamaro) e non pochi terminavano talvolta di andare a smaltire 1 fumi del vino in gattabuia. Ecco la cronaca del ballo tenuto il 6 febbraio 1873: «Soiree damante demoniocra-tica in Castello. Dirigeva le danze il ben noto Ceu. Due ballerine, venute a contesa per un divo, s’acciuffarono per bene, e fu chi fece raccolta dei capelli da esse perduti per venderli ad un parrucchiere». * Gli spettacoli al Teatro di Società, durante il Carnevale, erano cosa di non eccessiva attrativa per il popolo. Questi prediligeva piuttosto di assistere alle recite che una compagnia di filodrammatici, messa insieme dal fabbricante di carte da gioco Virginio Mengotti, dava nella soffitta di casa Lazzar in Cocevia. Durante il giorno, sul minuscolo palcoscenico del teatrino, stavano ad asciugarsi le carte da gioco stampate di recente. La sera i nipoti del Mengotti, Vittoria ed Erminio, aiutati da un amorino ricciuto di bambina la Geniutta (Eugenietta) Sinigoi, che abitava in Senàus (Piazza St’Antonio), le raccoglievano in panieri, prima dell’inizio della rappresentazione. Durante il riposo, tra un e l’altro atto, gli spettatori stavano commentando le ultime pasquinate, comparse sul rovescio delle carte del Mengotti. A quei tempi il pubblico rideva alle spalle di una donna, che per un battibecco avuto col singolare artista, era stata effigiata nelle sembianze di una furia inviperita con l’aggiunta di questo epigrammma: Quella donna, che grida in tal modo, Crede forse d’ aver gran talento, Quando invece da tutti io sento Che vi dicon : Pagnacca, sei tu ! 32