barriera comunale (stàngia), dove i veicoli dovevano pagare quattro soldi (un patacòn) di pedaggio per ogni cavallo - facevano degli affaroni. Aveva quella un cortile ombreggiato da annosi gelsi (moràrs) e vantava un gioco di bocce (zugh di zbòcis) invidiabile, che faceva affluire una numerosa schiera di artigiani, come nei dì di festa. In città non v’era possibile trovare un Crispino vicino al suo banchetto a pagarlo un Perù. Da una siluetta di quell* anno ¡g. Una delle domeniche più vivamente attese dai nostri vecchi era quella che seguiva il giorno di San Valentino (quattordici febbraio). Per inveterata consuetudine tutti i goriziani, ligi alle antiche tradizioni, costumavano in quel pomeriggio di andare a San Mauro, al di là dell’ Isonzo, quasi di fronte a Salcano. Verso le quattordici la famiglia, padre, madre, figliolanza (marmocs) e rispettivi conoscenti, si metteva in moto verso quella località. Davanti procedevano i figlioli, che saltavano oltre tutti i paracarri lungo i margini della strada, seguiti a poca distanza dai genitori e dai loro amici. La provvida padrona di casa portava la sporta ripiena di ogni ben di Dio, quasi la scampagnata dovesse durare una settimana intera. Due erano le strade: una per Via Salcano sino al Passo della Barca, dove il proprietario dell’ imbarcazione traghettava i gitanti oltre l’Isonzo verso il compenso di quindici soldi per persona; l’altra, più pittoresca, oltrepassando il ponte sull’Isonzo (puint ros o dal Fogàr), Peuma (Piuma) e la romantica Buza dal diau (buca del diavolo), metteva in breve a San Mauro per una stradicciola fiancheggiata da verdi pendici (rivài), sulle quali v’ erano incastonati 1 bucaneve e le primaverine (pivètis) in modo da sembrare un morbido tappeto trapunto di fiori. Oltrepassato il glauco ruscelletto Piumizza v’ era una osteria ove i pigri viandanti facevano la prima tappa. Un oste del Colilo s’ingegnava bravamente di attirare i passanti con ogni mezzo. Mentre i genitori vuotavano un paio di bicchieri di vino prima di raggiungere la meta desiderata, i ragazzi andavano cantando la filastrocca : — Atìndiu ben! Atìndiu ben! L’è tanta ìnt che ven. — Lasèt, laset che tìegnin, Che nus faràn dal ben. — La'bhzara, la buzara, Cui sa se pàjaran ? (— Attendili bene! Attendili bene! Viene tanta gente. — Lasciate, lasciate che vengano, che ci faranno del bene. ■— Baie, baie, chissà se pagheranno?). Davanti la chiesa dal rustico portichetto v’ era una folla di gente che non poteva trovar posto. Dopo il ve-spero, che terminava col bacio della reliquia di San Valentino, i prediletti della sorte arrivavano a sedersi sul muro di cinta del sagrato. Da quel rialzo si godeva un panorama incantevole. Ai piedi del monte si distendeva l’Isonzo che, simile ad un serico nastro cilestrino, andava ad impallidire, per poi confondersi in lontananza, Il ponte dell’ Isonzo Da un disegno del 1682 La calzoleria di Francesco Cumar, nel 1869 14