mirano ad aggregare nuovi adepti alla scuola politica, di cui il loro vestito era la muta ma abbastanza eloquente espressione. La prava intenzione criminosa era adunque insita nel fatto stesso. Per ciò che riguarda l’accusato Juch, il quale senza prendere parte alla mascherata stessa, oppure se fosse stato chiamato dai promotori della medesima dopo averla già stabilita, onde interpellarlo se fosse disposto ad apprestare il vestimento necessario. Ma ritenuta anche quest’ ultima versione, a lui più favorevole, rimarrebbe pur sempre vero, che aderendo all’ inchiesta dei soci, ei li affermò nel reo divisamento, prestandovi indi per quanto stava in lui, a fornir loro il vestito, e quindi il mezzo necessario a tradurre in atto la divisata dimostrazione. 11 Juch è per cultura inferiore agli altri accusati, ma non a segno da ignorare quale nella sua essenzialità sia l’uniforme di Garibaldi, e quali presso a poco sieno le tendenze e gli atti ostili del medesimo contro 1’ impero austriaco, cose tutte che, almeno indigrosso, sono ormai conosciute anche da gente dell’ infima classe sociale. Nei convegni della Clapa, ai quali egli stesso, per la sua ammissione, talvolta interveniva, avea desso occasione di sentirne a discorrere. Che realmenre conoscesse il significato politico del vestito, al cui compimento ebbe a prestarsi, lo proverebbero vieppiù i deposti fatti nell’istruttoria dai suoi dipendenti Giuseppe Benet e Matteo Corsich. A quest’ultimo ordinò di avvertirlo, se venissero quei tali dell’Angelo d’oro, affine potesse nascondersi, perchè non voleva fare i capi di vestito da essi desiderati ; al primo poi spiegò il motivo di tanta renitenza, dicendogli che quel costume era dimostrativo. Poco importa che il Benet abbia ritrattato il suo deposto al dibattimento, dacché non giustificò plausibilmente tale ritrattazione e non è inverosimile, che abbia modificato il suo deposto, perchè vinto da sentimenti di compassione pel padrone e per la sua famiglia. Stabil ta per tal modo la prova di reità a carico di tutti gli accusati, mi resta di parlare della misura della pena. 11, § 65 Cod. Pen. determina per crimine onde trattasi, il carcere da uno a cinque anni. E circostanza attenuante la nessuna dannosa conseguenza derivata dal reato. Faccio valere inoltre a favore degli imputati la precedente incensurata loro condotta, circostanza però che non milita a vantaggio del Favetti e del Riavitz ; puniti per reato di egual natura. Nessuna circostanza aggravante. Propongo perciò: contro l’accusato Favetti, che ritengo più compromesso degli altri, come quello eh’ erasi assunto la parte di capo della comitiva la pena del carcere duro per un anno e mezzo, contro 1 accusato Riavitz quella del carcere duro di mesi quindici, contro gli altri imputati il minimo della pena, cioè un anno di duro carcere. Rimetto poi al discernimento dell’inclito tribunale il conoscere, se gli accusati, riguardo ai quali proposi il minimo della pena siano meritevoli dell’ applicazione del § 54 C. P., che accorda al tribunale di scendere sotto il minimo legale. Ad ogni modo ritengo applicabile riguardo all’accusato Juch il disposto del § 55 Cod. stesso, essendo egli capo di famiglia e padre di tre creature ancora in tenera età, al cui mantenimento ei provvede unicamente coi proventi della sua professione di sarte». * Non ostante le brillanti arringhe di due difensori, il processo dei garibaldini si era chiuso con la seguente sentenza : «I. Gli accusati Giovanni Nepomuceno Favetti, detto Mago, Antonio Camelli, Giuseppe Dell’Agata, Clemente Riavitz, Ippolito Costantino Dorese, Luigi Pussig e Carlo Fonzari vengono giudicati rei del crimine di perturbazione della pubblica tranquillità previsto dal § 65 C. P. e punibile a termine del paragrafo stesso, e vengono perciò condannati : Giovanni Nepomuceno Favetti e Clemente Riavitz, in via di commutazione di pena, il primo a mesi otto ed il secondo a mesi cinque di duro carcere inasprito per tutti e due coll’isolamento durante tutto il primo mese di condanna; 28