dove venivano trasportati a Gorizia. Subentrata la scarsezza della legna la vetreria venne trasferita ai piedi del Picco di Mezzodì'; ciò accadeva verso il 1794. La distanza di questo luogo da Vaifredda è di circa sei o sette chilometri. Il ricordo di questa vetreria esiste ancora nella deno umazione della località chiamata Vetreria vecchia. Col trasloco, diversi vetrai fissarono la loro dimora nelle vicinanze di questa, alcuni sulla sella del Col Moischi, altri a Loqua e qualcuno rimase ancora a Lasna. Nel 1 796 troviamo però che la maggior parte abitava a Val Moisca. E’ altresì accertato che il deposito dei prodotti non era più a Lasna, ma si trovava a Loqua. Questo consisteva di una grande capanna di legno o baita dove venivano depositate temporaneamente le vetraglie prima di venire inoltrate a Gorizia. La mancanza di combustibile costrinse ì vetrai a trasportare la fabbrica, verso gli anni 1814 o 1817, in un altra località distante dalla prima una quindicina di minuti, situata più in giù in continuazione della valle. Essi s’allontanavano così da Loqua, rasentando ancora sempre i piedi del Picco di Mezzodì, restando però sull’opposto versante delle pareti di Tribussa. Quivi lo spazio a loro disposizione era maggiore. La Vetreria nuova sorgeva in un’ ampia spianata nelle cui adiacenze v’ era una piccola sorgente d’acqua. Cessò d’essistere verso il 1825 o 1830, dopo aver quasi completamente distrutto quella ricca zona boschiva. * Le vetrerie sorgevano in mezzo a delle vaste foreste in conche naturali situate alla confluenza di due o più valli, allacciate alle strade conducenti nei villaggi vicini. Nel mezzo della spianata v’ era un ampio edificio quadrangolare costruito in legno. Nella facciata principale di questo v’ era una larga apertura, che permetteva l’entrata alle carra di legna. Nelle pareti vi erano dei fìnestroni, come si vedono tutt’ ora nei rifugi montani dei taglialegna. L’instabilità delle vetrerie non permetteva grandi cure nella costruzione, e, spesso, venivano adoperati dei tronchi d’alberi rozzamente squadrati. L’aspetto, per conseguenza, era piuttosto modesto e contrastava fortemente con 1’ eleganza degli oggetti che là si confezionavano. Nell’interno sorgevano uno o due forni, con la base rettangolare o elittica e che superiormente si chiudevano a volta di botte. A questi erano addossati dei forni da tempera per ricuocere gli oggetti, per calcinare la sabbia e per seccare la legna. Ogni forno aveva otto aperture, costruite superiormente a volta, nelle quali venivano posti i crogioli per la fusione delle materie prime. I forni erano costruiti con dei mattoni refrattari, che venivano confezionati dai vetrai stessi con cocci di pentole e di vasi, nonché di altro materiale raccogliticcio. La loro resistenza all’azione del fuoco era di circa sei mesi. I crogioli avevano la forma di pentole, cioè di un tronco di cono. Ricevevano quasi un centinaio (circa cinquantasei chilogrammi) di miscuglio alla volta. La loro durata era di appena venticinque giorni. Nelle adiacenze della fabbrica si trovava la capanna per il guardiano, i lavoranti e le loro famiglie abitavano nei paesetti vicini. V’erano poi Io stagno artificiale per raccogliere l’acqua, i cumuli di materiale, quelli della sabbia vetrificabile, della massa vetrosa, delle ceneri, del carbone e dei rottami di vetro. In questi cumuli si rinvengono spesso utensili scartati dai vetrai. A Vaifredda trovammo in uno di questi monete del tempo, fibbie metalliche per scarpe, canne di ferro per soffiare il vetro e altri oggetti ancora. Per la fabbricazione delle bottiglie occorrevano ai nostri vetrai le sabbie quarzose del Tribussa, terra gialla silico-calcarea, che dava alle bottiglie il colore verde, ceneri liscivate, creta o marna, solfato di soda, carbonato di calce, sale marino, rottami di vetro e di pentole. Dalla proporzione di questi ingredienti dipendeva la qualità del vetro ; la Bottiglia di vetro giallastro, di Vaifredda 89