Sotto la Riva del Castello, nella piazzola quattrocentesca, dominata dal balcone dell’ antico Palazzo del Comune e dalle arcate arrampicantisi sull’ erta conducente alla leggendaria cittadella, si presentava un simpatico quadro di genere. Protetto da una tenda, che per il molto uso s’era tinta di un colore indefinibile, v’ era un fornello infocato e dietro di lui se ne stava Gigi, il popolare caldarrostaio, proprietario di una mezza dozzina di catapecchie decrepite negli angiporti di Castello, nelle quali gl’ inquilini, tra cui anche il famoso caramellaio Poldo dati sidèlis, erano costretti a moversi nell’abitazione con l’ombrello apeito, quando pioveva. A destra, su d’ un barile vuoto e sfondato, sedeva la Tina che accompagnava con dolci sorrisi le arringhe seccate e affumicate e le sardelle salate, che vendeva ai contadini della valle del Vipacco. Tra le due macchiette v’era Orsola Biza del Borgo San Rocco, che con voce stridula invitava 1 passanti a comperare le rape lessate : « Qui le rape calde ! Qui le rape!» (Ca i ufiei cials ! Ca i ufiei!) Arcate a tutto sesto anche nelle case attigue. Sotto quelle del Sei, la Turna svolgeva i rigatini del Concion di Gradisca e le mutande di frustagno color turchino, mentre un arrotino guercio cavava scintille dai coltelli e dalle forbici che arrotava. V’ erano anche la Studioza e la Pepa, che vendevano i dolci tradizionali, tra cui i famosi saltimpanza, (icasès), ciambelle colorate di rosso e di azzurro con lo zucchero semolato. Nella vicina Osteria Andemo de Zara, gestita da Tommaso Gelaucig, le fritelle fumanti e bene inzuccherate venivano vendute a dieci soldi la dozzina. Dappertutto massaie con sporte di paglia intrecciata, ricolme d’ogni ben di Dio. In Via del Giardino il macellaio Sinigoi (barba Giovanin) poneva in vendita la selvaggina più ricercata. V’erano fagiani, galli di montagna, caprioli, camosci, disposti con una grafia degna del pittore Hondecoeter. La Vigilia di Natale era di prammatica, in tutte le famiglie goriziane, il mangiare di magro. In Piazza della Pescheria, a ridosso del muro di cinta del Seminario teologico, v’era la tettoia della pescheria con degli spaziosi banchi di vendita. Ciò che però mancava era il pesce, che qualche anno si riduceva al baccalà molle. Da Marano e da Monfalcone venivano, è ben vero, i pescivendoli con del pesce freschissimo, ma, causa 1’ alto prezzo, non era possibile portarselo a casa. Da Grado provenivano le ostriche, che Romano offriva in vendita per le case e per le trattorie della città, spremendovi sopra alcune gocce di succo di limone. * In una vetrina del pasticcere Domenico Pordon, a pochi passi dal Caffè Imperiale in Piazza Grande, torreggiava in quei giorni un grande vaso di maiolica (ora nel Museo della Redenzione), che portava la scritta « Mostarda Soprafina », quasi per ricordare ai cittadini le vecchie consuetudini gastronomiche goriziane. Il bel recipiente proveniva dall’ antica offelleria Ieran, che verso la fine del Settecento si trovava in Via del Rastello e che in seguito erasi trasferita in Piazza Grande, L’antico Palazzo del Comune 242