sione e nei giorni di sagra indossavano il vestito nuziale, portavano dei grembiuli di uno di questi colori : turchino, bruno, arancio, verde, viola, cremisi, granata. 11 corteo nuziale si formava nella casa dello sposo. In questa v’ era a disposizione dei partecipanti un padellone di frittura di vitello e del pane condito con del burro (pan cunsàt), una terrina di gnocchi speciali (pistùn) e vino delle migliori qualità. Dopo lo spuntino il corteo si recava verso l’abitazione della sposa, accompagnato dal Terzetto di Sotto la Riva del Castello, che aveva il suo recapito all’ Osteria Bucaviz. Raggiunta la casa della sposa, si presentava al poggiolo (pujùl) una vecchia, che veniva accolta dai presenti con il grido: «Non la vogliamo avere!» (No ualìn Vela!) Si affacciava dopo di questa donna una ancora più anziana, ma veniva respinta con delle grida ancor più assordanti. Finalmente si presentava la sposa! Tutto il corteo la salutava con dei clamorosi : « Evviva la sposa ! » (Eviva la nuvìssa !) e gli uomini facevano scattare il grilletto delle pistole sparando in aria salve di gioia, per impedire così la fuga alla « colomba ». A proposito di questa vecchia consuetudine abbiamo già ricordato che nel 1775 il Capitano circolare Giampaolo barone Baselli aveva chiesto alla Superiore autorità la promulgazione di un editto contro 1' usanza di sparare durante gli sposalizi, le sagre ed altre occasioni per porre fine ai malanni che ne conseguirono. Finita la sparatoria veniva offerto, da parte dei familiari della sposa, da mangiare e da bere a tutta la comitiva. La sposa appariva agghindata come una Madonnina settecentesca. Veniva pettinata la sera precedente del giorno delle nozze ed era costretta, per non guastare 1’ architettonica acconciatura, di passare la notte seduta su d’una seggiola senza poter poggiare la testa alla spalliera. Discesa dal poggiolo, il corteo si ricomponeva per avviarsi alla chiesa. Quivi un sacerdote della Metropolitana univa le sorti dei novelli ascritti alla Confraterna di San Giacomo (San Jàcun) ed interveniva poi al convito nuziale. Usciti dalla casa di Dio, si presentavano davanti la coppia dodici giovanotti del borgo cittadino della sposa, per offrire agli sposi sopra un vassoio un boccale di vino, che doveva venir pagato dallo sposo, se questi non era dello stesso borgo della consorte. Lo sposo, per sdebitarsi dai borghigiani, poneva dieci talleri di Maria Teresa sul vassoio. In quel- 1 istante tutti gli uomini si levavano il cappello e i musicanti si mettevano a sonare 1’ antica canzone nuziale goriziana (la majòlsisa), accompagnata dal canto di tutti i presenti. Ecco il suo testo : Vèzo robàt una fantàta, La plui bièla dal mio borgh, Puartèt svelti la majòlsisa Cui bon vin e 7 pan di sorgh ! (Avete rubato una donzella, la più bella del borgo, affrettatevi di portare il boccale con del buon vino e il pane di granturco.) A commento del testo gioverà ricordare che lo sposare una ragazza d’ un borgo cittadino, che non fosse il proprio, costituiva sempre una specie di ratto, da ciò la pretesa dei giovanotti, per inveterata consuetudine, di esigere il tributo di : bon vin e il pan di sorgh ! L andare ad amoreggiare con una ragazza d’un altro borgo, specie con quelle del Borgo San Rocco, costituiva sempre un pericolo. I borghigiani attendevano l’importuno e, presolo per le spalle, lo immergevano nel bacino della fontana (tocià tal laip) in mezzo della piazza, per fargli svanire 1 bollori erotici o per mondarlo da altri peccati. I giovanotti venivano spronati a tutelare la reputazione delle ragazze sanroccare col canto di questa villotta : Fesil fur fantàs di vita Son forese a fa l’ambr, Se sezo bòins di fàju cori Ciapar'ezo il pont di onori (Venite fuori giovanotti del borgo, sono forastieri che vengono a fare all’amore, se siete capaci di discacciarli, piglierete il premio d’onore !) 222