Il giorno ventinove veniva tenuta la Fiera di San Michele. Al mercato degli animali comparivano i porcellini, che venivano acquistati dai villici per allevarli. Nelle piazze v* erano i montanari del Goriziano, che vendevano grevi calze di lana e pantofole (scarparòs) del medesimo tessuto. In Piazza Sant’ Antonio v’ era un animatissimo commercio di bottame cragnolino. Verso il Palazzo dei conti Lantieri si rizzavano i baracconi dei saltimbanchi con le più svariate attrattive. In quel giorno la cappella della Metropolitana, diretta dal maestro Mattia Zei, si portava al Santuario del Monte Santo per la Messa solenne. Dei vecchi cantori ricorderemo il primo tenore Antonio Giovanelli, i tenori secondi Augusto Zurman direttore dell’ Istituto dei Fanciulli abbandonati e tale Lipizzer, soprannominato Miserere, stimatore al Monte di Pietà, i baritoni Antonio Vidrig barbiere in Piazza Sant’Antonio e Leopoldo Travan, scritturale nello studio dell’avvocato Vinci, i bassi Antonio Stanig fabbricante di stufe di maiolica in Via dei Cappuccini, Francesco de Braunitzer orologiaio in Piazza Grande e Michele Zanuttig cappellaio in Piazzetta dell’ Arcivescovado. Dei musicanti menzioneremo il sarto Antonio Volpis sonatore di tromba, il pittore Antonio Battig sonatore di trombone, il tintore Giacomo Clede sonatore di corno, il legatore di libri Luigi Sauli pure sonatore di corno, il pittore Francesco Pich sonatore di seconda tromba e il pittore Ferdinando Bonnes sonatore di bombardina. Il custode del Santuario offriva agli ospiti canori e musicanti un pranzo pantagruelico. Una volta aveva preso parte a quel banchetto anche il Cardinale Principe Arcivescovo Giacomo dott. Missia il quale, vedendo susseguirsi tutta quella lunga serie di vivande, s’era così espresso: «M’avevano detto, al mio arrivo a Gorizia, che il Monte Santo era un luogo dove si andava a fare penitenza. Se a far penitenza vuol dire trattarsi in questo modo, desidererei di poter fare penitenza quassù per tutto il tempo della mia vita. * Dopo la frutta veniva la volta dei brindisi, almanaccati da Sior Micel Zanuttig nella bottega, mentre se ne stava passando e ripassando le falde dei cappelli, che dovevano venire venduti durante la Fiera di San Michele. Lo Zanuttig s’ alzava e, tenendo alto il calice ricolmo dell’ incoloro ma potente vino di Canale, brindava a nome dei convitati alla salute del pievano con queste parole: Chist l’è pan e chist Vè vin, Evitìa il sior plevàn ! (Questo è pane e questo è vino, evviva il signor pievano !). Ma non trovando il brindisi il consentimento dei commensali per la mancata rima, Io sghembato vate, dopo essersi accorto della stonatura e aversi riempito nuovamente il bicchiere, così lo correggeva : Chist l’è vin e chist l’è pan, Eviva il sior plèvan ! (Questo è vino e questo è pane, evviva il signor pievano!) Tutta la comitiva lo applaudiva allora e gli chiedeva degli altri brindisi ancora. Sior Micel, ringalluzzito, non si faceva pregare due volte e, dando la stura alla sua vena poetica, così continuava : Dilla jaristu ? A Monsanto ! Se jastu mangiati Jai mangiàt tajadei ! Eviva il mestri Zei ! (Dove eri ? A Montesanto ! - Che cosa hai mangiato ? - Ho mangiato tagliatelli ! Evviva il maestro Zei !) 176