L'Italia non informata 21 stro degli Esteri ed i suoi più vicini collaboratori, e le questioni minori dal consigliere o primo segretario che restava a Vienna. La Consulta era naturalmente al corrente di ciò. Un giorno ricevo da Roma un telegramma con istruzioni di appurare la presenza ed il numero di ufficiali austro-ungarici in Albania, ove da qualche tempo la situazione era torbida. Poiché si trattava di questione minore, e poiché il telegramma era stato indirizzato a Vienna, contrariamente a quelli di maggior momento che venivano indirizzati a Budapest, mi recai al Ministero per assumere informazioni. Ciò che fu detto a me fu diverso da quanto fu poi detto a Budapest ad Avarna, il quale rilevò il fatto, e mi telegrafò pregandomi di astenermi dal trattare a Vienna questioni politiche, poiché ciò poteva « ingenerare confusione ed equivoci della natura di quello che si è verificato e riuscire dannoso al buon andamento del servizio». Ritornato Avarna a Vienna, riparlammo del piccolo incidente, ed io gli osservai che, comunque, tra la minore o maggiore reticenza nelle dichiarazioni di Vienna e di Budapest, tra il bianco e il nero dettoci nell’uno e nell’altro posto, eravamo giunti a conoscere la verità. Al che Avarna rispose: « E lei crede sia utile conoscere la verità? » In un’altra circostanza io avevo avuto agio di constatare questa mentalità di Avarna: in occasione del Convegno di Konopischt, di cui dirò appresso. Pertanto in un primo tempo, a Roma, io fui indotto a ritenere che forse un altro ambasciatore a Vienna avrebbe potuto ottenere anticipate informazioni dal Governo austro-ungarico. Tali informazioni avrebbero potuto avere conseguenze incalcolabili: sia perché se l’Italia avesse avuto precisa tempestiva notizia di quanto si stava tramando avrebbe forse potuto, come già nel 1913, secondo poi rivelò Giolitti alla Camera italiana, sventare un’azione irreparabile dell’Austria-Ungheria contro la Serbia; sia perché se l’Italia, a mezzo del suo ambasciatore, avesse potuto forzare l’alleata a tenerla al corrente delle sue proprie idee nella gravissima contingenza politica, come le imponeva il patto