380 EPISTOLARIO non già perchè i gnifìca olim opera et apud suos tam metro quam soluta oratione sine Latini ignorino le opere insigni degli fine celebrata Latinis sint incognita; illa presertim ulustriora, inter W scrittori greci, così ^ 1 (a) B intra PG intraque a quello (1390-417) in cui furono dettate più di cento delle epistole sinora lette, non ci restano che tre componimenti del V. assieme con una lettera (CXXXXII) indirizzatagli da Nicolò de’ Leonardi, testimonianza an-ch’essa che il loro carteggio era da molti anni cessato. Eppure non possiamo credere cosi di leggieri che, mutato il cielo, egli abbia cambiato altresì l’animo suo, dimodoché per ven-tisei anni non tenesse più commercio epistolare con nessuno ; riteniamo anzi probabile che non poche epistole spettanti a quest’ultimo periodo della sua vita, e dirette a persone con cui era entrato in relazioni, sia in Boemia sia in Ungheria, possano tuttora celarsi in codici, non ancora esaminati, oltre le Alpi. Ma comunque ciò sia, è chiaro come i tre componimenti rimastici entrassero a far parte della silloge delle epistole Vergeriane messa insieme nel codice Brunacci, solo perchè durante la vita del V. o a breve distanza dalla sua dipartita furono trascritti e comunicati quasi per caso a chi in Italia potesse sentirne interessamento. La presente, che è il primo di codesti scritti, fu già tratta dal codice Brunacci e pubblicata da A. Zeno nelle Dissertazioni Vossiane, Venezia, 1752, voi. I, p. 54. È dessa l’epistola dedicatoria prefissa alla traduzione ancor inedita dc\VAnabasis Alexandri e della Historia Indica di Armano fatta dal V. a richiesta di Sigismondo medesimo. Nel 1454 il manoscritto originale della traduzione fu scoperto in non sappiamo quale città dell’Austria dal Picco-lomini, e da lui mandato in dono ad Alfonso d’Aragona. « Prima editio est « Pauli », scrive il Piccolomini da Wie- ner Neustadt, « sua manu conscripta, « neque inde receptum exemplar est « preter unum quod summo pontifici « Nicolao, dum esset episcopus Bono-« niensis et apud Cesarem legatione « fungeretur, recipere permisi, et aliud «quod mihi retineo». Con una seconda lettera, diretta al Panormita, il Piccolomini, volendo scusare lo stile disadorno e quasi letterale della versione vergeriana, ne dà una spiegazione, che, pur essendo affatto infondata per quel che concerne Sigismondo, e forse anche soverchiamente apologetica riguardo all’opera stessa, ci consente tuttavia di precisare che la versione fu fatta, non già, come al Bischoff è apparso, durante le more del concilio di Costanza, bensì parecchio più tardi in Boemia ed altrove. «Videbis», egli dice, «nisi decipior hystoriam et ve-« racem et bene contextam. Stilus « neque altus neque admodum ornatus «est, quamvis esset Paulus et facun-« dissimus et elegantissimus, sicut eius «edocent cetera que scripsit opera. « Sed voluit in hoc Sigismundo Cesari «morem gerere, cuius iussu Arria-«num transtulit. Neque enim ser-« monis capax sublimioris erat Sigis-«mundus; Paulus, ut videbis, senio « confractus est et ad sepulchrum fe-« stinat. Tuum est curare magno vati « et tui simili ut exequie digne fiant » (cf. R. Wolkan, Der Briefwechsel des E. S. Piccolomini in Fontes Rerutn Austriacarum, vol. LXVI1I, 1918, p. 433 e 436). Con queste dichiarazioni del Piccolomini ben s’accorda l’intestazione del-l’epistola dedicatoria, come la si legge nel codice Parigino, il quale indubbiamente rappresenta la copia dell’opera